sabato 31 gennaio 2009

La condanna di Eluana


Da qualunque parte la si guardi, la vicenda che vede coinvolta Eluana Englaro e la sua famiglia si mostra come complicata e sgradevole. Complicata dal punto di vista giuridico ed etico, sgradevole per le intromissioni della Chiesa Cattolica che appaiono una volta di più come uno scandaloso e illegittimo esercizio di potere e di coercizione nei confronti della libertà di pensiero personale. Non è mai facile esprimersi su questioni che coinvolgono la coscienza individuale, il modo di vedere la vita e di intendere le priorità esistenziali e proprio per questo, prima di lanciare anatemi convinti di essere i soli a detenere la Verità, gli alti prelati cattolici dovrebbero pensarci bene. La libertà di credo dovrebbe venire prima di ogni altra cosa.
Per chi, come me, è convinta che in ogni uomo vi sia una scintilla divina, essenza spirituale e vera natura dell’essere umano che si è incarnata per compiere il proprio viaggio evolutivo, quello che si vede è solo un’anima imprigionata in un corpo fisico del quale non può liberarsi. Costretta a stare inutilmente rinchiusa in un involucro che non è più adeguato alle sue necessità e che dovrebbe avere la possibilità di cambiare per poter continuare la sua crescita spirituale. Scopo della vita – che continua, incessante, al di là della persistenza del corpo fisico – è quello di dare compimento all’evoluzione dell’essenza più profonda dell’essere nel corso di un cammino che la porta a sperimentare, conoscere, imparare e crescere e il corpo fisico, pur prezioso strumento, non è che un mezzo per consentire alla pura essenza individuale di elevare la propria consapevolezza e prendere coscienza della sua vera natura. Una volta che tale rivestimento non è più idoneo perché diventato insufficiente o inadeguato alle esigenze dell’Anima, essa deve avere la possibilità di abbandonarlo per vestirsi di un mezzo confacente alle sue necessità.
In quest’ottica, la situazione di Eluana Englaro non appare altro che la condanna di un’Anima (vera essenza della ragazza) a restare intrappolata in un mezzo che non le dà nessuna possibilità di manifestarsi nel mondo e quindi di evolvere. Una condanna più impietosa della galera, più inutile di un’inutile morte.

lunedì 26 gennaio 2009

Il potere dell'immaginazione


Si è portati generalmente a considerare l’immaginazione e le attività ad essa correlate, come appannaggio della sola infanzia, convinti come siamo che gli adulti, per esser davvero tali, debbano “stare con i piedi per terra”, nel dominio assoluto della razionalità e della realtà in cui vivono. Ci convinciamo di non poter essere altro che quello che siamo, di poter esprimere solo i sentimenti, le qualità, le capacità che dimostriamo di possedere. Spesso si dice “io son fatto così, che ci posso fare?”.
In verità, solo accettando di andare oltre questa ristretta visione delle cose, ci si può rendere conto di come, piuttosto, l’immaginazione, sia un potente strumento a nostra disposizione, capace di modificare lo stato delle cose e di farci raggiungere territori nascosti di noi stessi e della stessa vita facendo emergere di noi qualità e capacità prima impensabili.
Perché questo accada, però, dobbiamo per prima cosa cambiare il nostro atteggiamento interiore di fronte agli avvenimenti della vita e convincerci che tutto ciò che ci accade non avviene per caso, ma per effetto di leggi giuste e immutabili. Insomma, che tutto ha uno scopo ben preciso ovvero quello di risvegliare la nostra coscienza addormentata.
Un’altra cosa da non dimenticare è che in noi vi è una parte interiore e nascosta dalle potenzialità immense e latenti che va portata alla luce per poter trarre da essa tutta l’energia, la forza, la saggezza, che già possediamo ma cui normalmente non abbiamo accesso.
L’immaginazione è un atto del pensiero che, quando si riferisce a stati interiori, è fortemente creativa ed evocativa. “L’energia segue il pensiero” si dice nei libri di antica saggezza, “Come un uomo pensa in cuor suo, così egli è” si scrive nella Bibbia.
Quando, infatti, si cerca di immaginare un sentimento, una qualità superiore, si evocano, ad un tempo, dal profondo di noi stessi delle potenti forze latenti e dall’alto energie affini a quel sentimento, a quella qualità che ci stiamo sforzando di immaginare.
“I pensieri sono cose” diceva Prentice Muldorf e Setchenof: “Non vi è pensiero senza espressione; il pensiero è un atto nascente, un principio di attività”.
Nell’immaginare una qualità, creiamo una forma-pensiero carica di quella particolare nota e tale forma-pensiero tenderà continuamente a realizzarsi sul piano fisico.
E’ quella tecnica che viene anche chiamata il “fare come se” e basata sull’evidenza (scientifica) che il sistema nervoso non ha nessuna capacità di distinguere tra l’immaginario e il reale, tra l’immaginazione e la realtà. Il potere dell’immaginazione è enorme, sorprendente, per rapidità di efficacia e potenza. Lo stesso Assagioli affermava a questo proposito: “Si deve usare attivamente l’immaginazione e cercare di vedere nel modo più vivo e concreto possibile come vorremmo essere. Dobbiamo immaginare in modo preciso la nuova espressione della nostra fisionomia, il nuovo di comportarci e di parlare, i nuovi sentimenti e i nuovi pensieri risvegliati in noi, la nuova volontà che ci anima, tutto il nostro essere armonicamente modificato. Ogniqualvolta riusciremo a fare questo, anche brevemente, un cambiamento reale avverrà in noi. Ogni volta che ci avviciniamo di qualche passo alla meta, le ulteriori ripetizioni dell’esercizio divengono via via più facili. L’energia segue il pensiero e il pensiero diventa così creativo”.

domenica 25 gennaio 2009

Che giustizia sia fatta


Giustizia, giustizia, giustizia. La si invoca da ogni parte. Fuori e dentro i tribunali, dopo un delitto, in risposta ad un caso di malasanità, a seguito di un sopruso. Che giustizia sia fatta, dateci giustizia, vogliamo solo giustizia. Quante volte frasi come queste si sentono rimbalzare dallo schermo televisivo o si leggono stampate a caratteri cubitali sulle pagine dei giornali. Certo, la richiesta di giustizia è un sentimento umano, umanissimo. Come non capire chi, vedendosi vittima di un crimine, ha come principale obiettivo quello di veder punito il proprio carnefice? C’è, però, da chiedersi quanto sottile sia il confine che separa la richiesta di giustizia dalla voglia di vendetta e quante volte nell’invocare la prima, in realtà, questo confine non venga superato.
A volte la rabbia per una condanna mancata o ritenuta troppo leggera sembra superare di gran lunga il dolore per la perdita di un parente, così come il sollievo per una pena giudicata appropriata sembra quasi compensare la sofferenza causata da una morte o da una sopraffazione. Mentre l’amore per il congiunto perduto appare quasi sopravanzato dall’odio per il colpevole. Allora davvero mi chiedo se non si stia travalicando il limite di una legittima sete di equità e ci si stia, invece, dissetando alla fonte della rivalsa.
Con questo non voglio dire che i colpevoli non andrebbero perseguiti e catturati e non andrebbe loro comminata una pena appropriata e proporzionale alla colpa commessa, ma quella deve essere una preoccupazione dei giudici. Quel che dico è solo che mi pare che l’eccessiva preoccupazione per le sorti del reo vada, da una parte, ad alimentare ancor più un dolore già intenso, dall’altra a nutrire parti di noi (rancore, risentimento, ritorsione) che non fanno che accrescere in generale il male che ci circonda. Oltre al fatto che assecondare emozioni come queste comporta anche il rischio di legittimare, se portate all’estremo, azioni altrettanto delittuose.
Non cercano, forse, giustizia, dal loro punto di vista, palestinesi ed israeliani restituendosi vicendevolmente esplosioni e bombardamenti? Non è forse un – seppur malinteso e spesso malato – senso di giustizia che induce alcuni ad eliminare fisicamente chi, ritengono, si sia comportato male nei loro confronti? O ancora, per citare situazioni meno drammatiche, ma non per questo meno gravi nel bilancio tra bene e male, non è forse per riparare a torti che riteniamo di aver subito che noi stessi, quotidianamente, ci consentiamo piccoli soprusi?
Ad ogni modo, ritengo che, se si diffondesse maggiormente un punto di vista, purtroppo ancora molto lontano dalla nostra mentalità, e secondo cui la vita è sempre e comunque giusta e perfetta e sempre e comunque ogni azione, nel bene e nel male, viene prima o poi ripagata con il suo corrispettivo, indipendentemente dal nostro accanimento, forse tanta parte di dolore sarebbe lenita e molti più sarebbero i casi di chi, per aver subito un’ingiusta perdita destinano il loro tempo e le loro energie a compensare con altrettanto amore l’odio che è stato loro dimostrato, riuscendo a trasformare una tragedia in un moto di compassione costruttivo e benefico.
Quindi, che giustizia terrena sia pur perseguita, ma senzamai dimenticare che la Giustizia Universale trionferà sempre e comunque.

lunedì 19 gennaio 2009

Crisi uguale opportunità


In questo periodo la parola “crisi” sembra diventata di particolare attualità. Crisi delle istituzioni, crisi della società, crisi dei valori, crisi economica. Non c’è ambito che non sembri attraversato da una bufera di sconvolgimento e disarmonia. Una situazione che potrebbe avere – e che spesso ha davvero – il risultato di gettare nel panico e nello sconforto portando a demotivazione e ad ulteriore degrado.
Ma a livello pubblico, così come in ambito personale, le situazioni di disagio che scaturiscono da periodi di inquietudine e di forte squilibrio psichico possono diventare l’occasione per adottare scelte che portano ad una crescita piuttosto che decisioni dettate dalla paura.
Se è vero, come affermava Karl Jaspers, filosofo e psichiatra tedesco, che la crisi non è altro che “un momento in cui tutto subisce un cambiamento simultaneo, dal quale l’individuo esce trasformato”, questo particolare stato – sia che esso coinvolga il singolo o la società – va considerato semplicemente come un momento di passaggio da una condizione ad un’altra, una trasformazione, un cambiamento.
Il significato etimologico del termine (dal greco krisis) non farebbe che confermare questo punto di vista, ovvero l’opportunità di giungere ad una crescita, con tutte le implicazioni esistenziali che rientrano in questa interpretazione.
L’esperienza della sofferenza correlata ai periodi di crisi può spingere ad avere il coraggio di abbandonare “la via del codardo” e abbracciare, invece, “la via del guerriero” nei confronti di situazioni che possono, così, esser risanate.
Vero è che in questi momenti maggiore è la vulnerabilità è facile è anche prendere la china dell’ulteriore degrado e della decadenza. Sta a noi decidere come impiegare questa opportunità.

domenica 18 gennaio 2009

Il conflitto israelo-palestinese e il nostro contributo alla pace


Al di là di quella che può essere l’interpretazione sociale, politica, religiosa o economica delle cause che stanno alla base del conflitto che si sta consumando in queste settimane tra i popoli israeliano e palestinese, può essere utile ricordare che vi sono, però, anche e soprattutto, delle radici profonde che trovano terreno fertile nell’animo umano e che, proprio per questo, riguardano da vicino tutti noi.
Sono quelle che affondano in quel che il Tibetano – uno dei Maestri di Antica Saggezza – chiamava “l’eresia della separatezza”, una delle principali e più devastanti illusioni in cui l’uomo vive completamente immerso e che produce l’effetto di sentirsi soli e abbandonati, non compresi da nessuno. Questa totale distorsione della realtà ci porta a vedere gli altri come isole lontane e minacciose costringendoci ad erigere barriere di protezione contro quel “diverso” che con le sue stranezze ci appare tanto pericoloso. Questo fa sì che ci si senta del tutto giustificati in quella che è senza dubbio l’attività preferita dal genere umano, giudicare e criticare, sempre e comunque, coloro che non si identificano perfettamente con il nostro punto di vista. Ovvero, in qualche misura, tutti.
Così ci troviamo “l’un contro l’altro armati”, in uno stato di conflitto perenne di cui per lo più non siamo nemmeno consapevoli e che ci coinvolge in ogni aspetto della nostra esistenza. E’, così, molto frequente vedere come la critica e la contrapposizione prendono facilmente piede anche là dove ci si potrebbe aspettare più fratellanza e unità.
Se noi per primi, nelle nostre piccole faccende quotidiane, non riusciamo ad esimerci dal criticare il vicino, dal giudicare il collega di lavoro, dal sentirci migliori dell’impiegato che sta dall’altra parte dello sportello pubblico, come possiamo pretendere che popoli coinvolti in questioni tanto più gravi e più grandi di loro, che prendono le mosse da sentimenti ed emotività tanto più difficili da gestire, possano sedare i loro animi e arrivare ad instaurare una pacifica convivenza?
Se non riusciamo a mettere da parte nostri piccoli orgogli e presunzioni che ci fanno reagire secondo automatismi reimpostati anziché rispondere alle situazioni, così come alle persone, come possiamo aspettarci lo facciano gli altri?
Certo, sentimenti di comprensione e di tolleranza nei rapporti interpersonali non sono facili da sviluppare per la natura stessa dei rapporti che portano sempre con sé, in modo più o meno conscio, una componente di distanza e separatezza ma se smettessimo di comportarci come fossimo i depositari della verità assoluta e imparassimo ad accettare anche coloro tra noi che, pur sgradevoli, hanno tutto il diritto di dare nel modo in cui sono capaci il loro contributo alla vita, forse ci avvicineremmo, seppur vagamente, ad esprimere amore nei confronti dei nostri simili. E forse vivremmo anche meglio, noi per primi.
Prima di giudicare gli altri potremmo, per esempio, ricordare che siamo tutti nella stessa barca e che anche gli altri, come noi, sono alle prese con i propri limiti,le proprie difficoltà e con le stesse necessità di esperienza che abbiamo, o abbiamo avuto noi.
Questo ci aiuterebbe anche ad accettare meglio i nostri limiti e le nostre mancanze facendoci comprendere che vale la pena spendere un po’ di energie per accogliere gli altri nel nostro cuore, compresi i loro difetti, e per coltivare l’unità. Non dimentichiamo che seminare comprensione restituisce comprensione. Questo può essere il nostro contributo alla pace, nella consapevolezza che ogni piccolo cambiamento in noi in questa direzione avvicina l’umanità ad un grande cambiamento. Perché, come scriveva la Blavastkhy (fondatrice della Società teosofica): “Cercare di compiere riforme politiche prima che sia stata effettuata una riforma della natura umana, è come mettere vino nuovo in botti vecchie. Fate che gli uomini sentano e conoscano nel profondo del cuore qual è il loro vero, reale dovere verso tutti gli uomini, ed ogni vecchio abuso di potere, ogni legge iniqua della politica nazionale basata sull’'egoismo umano, sociale o politico, scompariranno da soli”.

Elogio del silenzio


L’esperienza di guardare dentro se stessi è la più vera e importante che un individuo possa provare.
Se, però, non ci è mai capitato di fermarci a ricercare, quando si prova a raggiungere il cuore del proprio essere, ci si allontana, spaventati dal buio e dall’inquietudine che si percepisce.
Il silenzio può apparire come un vuoto orribile, un abisso spaventoso aperto sul nulla soprattutto per coloro che vivono completamente immersi nella personalità, strettamente vincolati al mondo oggettivo e che non hanno mai provato, neppure vagamente, la vibrazione proveniente dai livelli superiori del proprio essere.

La dimensione più profonda di noi stessi, infatti, ci è normalmente inaccessibile a causa del nostro immedesimarci nel nostro corpo e del fatto che alla nostra esperienza appartiene quasi esclusivamente lo stato pesante della nostra corporeità che ci mantiene indissolubilmente legati al contingente.

Ma l’uomo è costituto di spirito, oltre che di materia, e vi è ben altro oltre il velo di Maya dell’illusione, creatrice di forme e di vane speranze che si estrinsecano in vincoli come malattie, sofferenze, senso di impotenza, capaci di avvolgere completamente l’essere nel buio della non manifestazione.

Il silenzio si conquista un passo alla volta, con il controllo della parola, la conservazione delle energie, intessendo trame di solitudine e di riflessione che favoriscano l’acquietarsi della mente.
Il suono è vibrazione, è energia e ogniqualvolta parliamo emaniamo dell’energia di vibrazione, diversa a seconda della natura e della qualità delle nostre parole. Senza nemmeno rendercene conto disperdiamo continuamente energie, durante la giornata, con l’uso indiscriminato che facciamo della parola e del suono.

Ma silenzio non è solo assenza di parola, ma anche espressione di un modo di essere in cui la pace esteriore si realizza in quanto riflesso di un atteggiamento interiore profondo e fecondo, raggiungibile solo attraverso l’introversione della nostra attenzione.

Il silenzio è un modo per dare respiro all’esistenza e alla pace.

La sua caratteristica fondamentale è il suo eccezionale effetto nel riuscire a innescare trasformazioni profonde dando il via ad un processo evolutivo in grado di rivoluzionare abitudini e atteggiamenti, valori e obiettivi della vita.

Il silenzio ci permette di ritrovare e di ricongiungerci con il nostro essere interiore, la nostra parte più profonda lasciando che la voce affiori e la verità della coscienza possa finalmente esprimersi e inaugurando l’apertura del passaggio che conduce da fuori a dentro, dal caos all’ordine, dalla schiavitù alla libertà.
Quando le labbra tacciono, quando le emozioni si acquietano, quando anche i pensieri si fermano, allora qualche altra cosa comincia a parlare in noi.

martedì 13 gennaio 2009

Viaggio alla riconquista della felicità (2)


E’ possibile mantenersi in uno stato di serenità costante, al di là degli accadimenti della vita, delle circostanze, dell’ambiente? Può sembrare una meta irraggiungibile, eppure, imparando a governare il pensiero e le emozioni, si può.
Naturalmente si tratta di un’arte che, come tutte le arti, va coltivata e sviluppata. C’è chi ce l’ha innata e c’è chi, invece, deve lavorare duramente per poter accedere anche solo ad un livello minimo di questa capacità cui, comunque, tutti possono puntare.
L’uomo è progettato per raggiungere la perfezione, è vocato alla felicità, ma fondamentale è la disposizione interiore, l’atteggiamento che si assume di fronte agli eventi. E’, infatti, il nostro atteggiamento verso la vita che determina l’atteggiamento della vita verso di noi.
Se ci autoisoliamo, verremo isolati, se ci percepiamo emarginati, verremo emarginati, se amiamo, saremo amati. Nel rispetto del principio di reciprocità che attiva meccanismi per cui a ciascuno accadrà quello che egli agisce sugli altri e sul mondo. Questo vale nel bene come nel male ed è applicabile ad ogni aspetto della vita, dal lavoro ai rapporti con gli altri. Se cominciamo a sentirci male in un dato posto, finiremo con lo starci male davvero, così come portare avanti degli impegni con attitudine negativa produce malessere fisico, mentre le giornate volano nella piena soddisfazione e nel più totale benessere per chi svolge con amore il proprio lavoro. E’, dunque, innanzitutto il nostro atteggiamento a decretare il nostro successo o il nostro fallimento, e, di conseguenza, nostra felicità.
Il concetto è sinteticamente e perfettamente espresso nella massima “noi siamo ciò che pensiamo” contenuto nella Katha Upanishad e fondamento della scuola di Raja Yoga di Patanjali. “Con i nostri pensieri creiamo il mondo”, “Come un uomo agisce, così egli diventa”, “Com’è il desiderio di un uomo, così è il suo destino”, sono modi diversi – tutti contenuti nei testi di saggezza indiani – per esprimere lo stesso concetto: fortuna e sfortuna, di fatto, non esistono, siamo noi gli artefici della nostra fortuna della nostra sfortuna, direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente.
E’ un’opinione tanto diffusa da essere diventata un vizio pernicioso, il ritenere che la felicità dipenda dagli altri, dagli eventi esterni, da qualcosa al di fuori di noi. Come ogni vizio, quest’idea che serpeggia nelle nostre menti non fa che distruggere le buone qualità e rallentare i tempi per realizzare i nostri obiettivi. In realtà siamo noi stessi a creare la nostra felicità o a rifuggirla con il nostro atteggiamento. Prima interiormente, poi esteriormente.
Non c’è nulla di più errato che pensare che siano gli altri ad originare le nostre crisi e i nostri stati d’animo negativi. Anche quando veniamo danneggiati da qualcuno, quando viviamo una situazione difficile. Non è mai questo qualcuno la causa della nostra sofferenza, perché non è l’evento in sé a determinare la fortuna o la sfortuna, determinante è come noi lo viviamo. Ciò che conta è solo la nostra capacità di gestire i nostri pensieri e le nostre emozioni, l’arte o l’abilità di volgere al meglio qualsiasi evento.
Abituiamoci all’idea di poter far fiorire la nostra felicità, come un albero perenne, come un’abitudine. Ci si può abituare ala tristezza quanto alla felicità, la fatica è la stessa ma il risultato è totalmente diverso.